Lo so, lo so cosa stai pensando: perché dovrei leggere romanzi sulla malattia cronica e intristirmi? Perché conoscere le storie altrui se la mia è già abbastanza dolorosa? Ho finito da poco di leggere un libro che mi ha illuminata e che, pensa, non volevo neanche aprire. Partiamo dal titolo: La ragazza del buio. L’autrice è Anna Lyndsey, pseudonimo della vera protagonista. La patologia in questione è dermatite seborroica fotosensibile. Insomma, non è un Carnevale di Rio.
Come sono entrata in contatto con questo libro
Dicevamo, leggere romanzi sulla malattia non è proprio un divertimento. Al massimo un saggio, se ti interessa l’argomento. Io però sono una lettrice vorace e lo scambio di libri usati nutre la mia libreria dei titoli più disparati. Così, un anno fa circa, è arrivato nella mia cassetta della posta La ragazza del buio. L’ho lasciato in libreria per tutto questo tempo, perché non mi andava di lanciarmi in una storia triste e dolorosa.
Poi però il numero dei miei libri è aumentato a dismisura e mi sono imposta di sfoltire la TBR. Come? Creando un lungo elenco di tutti i titoli che ho in casa e chiedendo a random.org di sceglierne uno al posto mio. Sono una codarda, lo so. All’ultima estrazione, è uscito il numeretto di La ragazza del buio e io volevo far finta di non averlo visto. Ripeto: sono una codarda. Alla fine però è un volumetto di 200 pagine, in un weekend si finisce e io avevo bisogno di qualcosa di breve tra il lavoro e la scrittura della tesi. E quindi eccolo tra le mie mani, finalmente spostato dallo scaffale in cui ha dormito finora.
Di cosa parlano i romanzi sulla malattia cronica, di solito
Ero restia a leggere questa storia perché, lo ammetto, ho dei pregiudizi sui romanzi che parlano di malattie. Inevitabilmente ricadono in uno di questi due stereotipi: l’uomo o la donna guerriera che affronta tutto a testa alta e alla fine vince anche una maratona; oppure il pietismo più stucchevole e melenso. No grazie.
Ma questo non è un libro come gli altri. In Inghilterra è stato un caso editoriale nel 2015, e dopo averlo letto capisco il perché. Anna parla in prima persona della sua storia strabiliante, terribile e luminosa. La diagnosi, il gaslighting medico, i momenti di ripresa e quelli di dolore intenso si alternano a momenti di vita vera e al lettore non viene risparmiato nulla, né della luce né dell’oscurità.
Nel buio della diagnosi
Anna lavora in un ufficio del Ministero. Ha una trentina d’anni, una carriera avviata, ha appena comprato la sua prima casa in centro a Londra. Un sacco di amici e un fidanzato, Pete, con cui sta da poco e che ama alla follia. La sua vita si svolge tra lunghe ore davanti al pc e deliziose escursioni di gruppo. Ama la montagna e la campagna, adora stare all’aria aperta.
Un giorno, però, davanti allo schermo del suo computer il volto comincia ad andare a fuoco. Si tratta di un dolore atroce, che non riesce a sopportare e che pian piano si estenderà alle mani, ai piedi, alle gambe e infine a tutto il corpo. Di fatto, Anna ha una rara malattia autoimmune che potremmo definire “allergia alla luce”.
La speranza nei romanzi sulla malattia (o almeno, in questo)
La vita diventa un incubo. Anna è costretta a indossare larghi cappelli, poi mascherine di satin che le coprono il viso, guanti, leggins, fino a un vero e proprio outfit vittoriano con tanto di mutandoni e gonna ampia che la proteggano dalla luce. Neanche questo basta: deve chiudere tutte le finestre di casa e non solo con le tapparelle. Ci vogliono tende oscuranti e strati di alluminio per tenere la luce all’esterno. Anna si trasferisce in campagna dal fidanzato, crea una stanza-bunker dalla quale esce solo per mangiare in penombra.
Come accade in altri romanzi sulla malattia, nel racconto della sua potrebbe trascinarsi e autocompatirsi, ma non lo fa. Semplicemente, è. L’autrice racconta i momenti della malattia e della ripresa alternandoli con un ritmo piacevole, che permette veramente di finire il romanzo in poche ore. I giochi che inventa nella sua testa per passare il tempo, gli audiolibri, i sistemi ingegnosi per avere un’intimità con il compagno, il desiderio di suonare il pianoforte anche senza vedere i tasti. Sì, perché il dolore arriva anche se è coperta, anche se è al chiuso, anche se le giornate sono nuvolose. I raggi si insinuano nella sua pelle e la mandano a fuoco.
La nuova vita di Anna e di chi soffre di una malattia cronica
L’intera vita si ribalta, e non solo quella individuale. La vita di coppia, i progetti per il matrimonio, le vacanze, perfino le delibere comunali per cambiare i lampioni sulle strade vanno calibrate su un corpo che non è – e probabilmente non sarà più – in grado di funzionare. Anna lo sa. Pensa al suicidio, a volte ne parla, ma non lo commette. Ritiene la sua vita troppo preziosa. Pensa ad altre persone ammalate, a quelle che sono immobilizzate a letto. Sarebbe meglio poter vedere senza muoversi, o muoversi liberamente ma al buio? Meglio non pensarci: il destino le ha dato questa vita e non un’altra.
Allora fa di tutto per renderla piena, attiva, luminosa anche nel buio. Nei momenti di dolore più intenso, si rifugia in giochi di parole da fare da sola, con la mamma o con il fidanzato. Quando la malattia regredisce un pochino, passeggia in giardino dopo il tramonto. Fa lunghe chiacchierate con i suoi “amici di telefono” (la versione 1.0 del condividere la malattia sui social). Persone che si confidano ma non si piangono addosso, si raccontano cose della vita di prima, condividono giochi e notizie.
La luce nel buio
Il compagno e poi marito di Anna è un fotografo, così lei impara a usare un esposimetro per calcolare l’orario giusto per uscire dopo il tramonto o prima dell’alba e rientrare a casa in tempo per non essere colpita dalla luce più intensa. Costruisce un’apparecchiatura di feltro per la macchina e una per la roulotte, così può muoversi nei periodi di remissione e godersi i campi e i monti a tarda sera. Diventa una creatura crepuscolare.
Soprattutto diventa, senza saperlo, senza neanche accorgersene, una luce per gli altri. Non nasconde a nessuno la sua disabilità invisibile né la frustrazione degli esperimenti non riusciti, delle terapie che non funzionano, dei medici che non sanno cosa dirle. Impara semplicemente a vivere, nel nuovo perimetro creato dai limiti della malattia. La patologia di Anna è particolarmente isolante, ma molti e molte di noi possono riconoscersi nella sua storia. E possono trovare ispirazione in una donna che ha perso davvero tutto – o quasi – e ha trovato lo stesso la luce.
Alla fine abbiamo una scelta: soffrire bene o soffrire male, accogliere o respingere quella qualità che religiosi e laici definiscono “grazia”.
[A. Lyndsey – La ragazza del buio]