
Ci sono innumerevoli cose da dire sulla serie tv di successo, scritta e diretta da Mike White, ma soltanto una mette d’accordo tutto il pubblico: The White Lotus 3 è sorprendente come le due stagioni precedenti. La storia appare piuttosto semplice. Ogni stagione seguiamo un gruppo di ricchissimi vacanzieri e perlopiù poveri e disperati dipendenti in una delle location del resort di lusso. La prima stagione ci ha portati alle Hawaii, la seconda in Sicilia e la terza in Thailandia. La storia inizia sempre dal ritrovamento di un cadavere (che non ci viene mostrato) e prosegue raccontandoci la settimana che ha portato al tragico epilogo. Mike White gioca con il suo pubblico, che si presta volentieri alle indagini. Questi sono i personaggi, c’è (almeno) una persona morta e (almeno) una in grado di uccidere.
The White Lotus 3 e la tecnica slice of life
La serie tv potrebbe sembrare una reinterpretazione dei gialli da Agatha Christie, ma è più di questo. Si tratta di veri saggi sulla natura umana, in ogni stagione tematizzati. Nella prima si è parlato principalmente di razzismo e colonialismo, nella seconda di sesso e rapporto tra i generi, nella terza di religione e spiritualità. Non ci viene chiesto di seguire soltanto i potenziali assassini e le potenziali vittime, ma di entrare all’interno della settimana al White Lotus. Le storyline degli ospiti e dei dipendenti si intrecciano, si sfiorano, si confondono e ci confondono. Chi dovremmo seguire, chi sono i veri protagonisti della tragedia e quante sono le false piste? Non importa.
Il vero patto che facciamo con Mike White è questo. The White Lotus 3 segue una tecnica narrativa detta slice of life. Nata nell’ambito teatrale, molto usata in anime e manga e poi trasposta nel mondo delle fan fiction (abbiamo parlato proprio il mese scorso della cultura fandom nella mia newsletter), si tratta di una tecnica che rompe le regole della narrativa “classica”. La struttura in tre atti (inizio, svolgimento e fine) è interrotta in favore di una fetta di vita. Può essere la fetta di vita di un personaggio o di un luogo, il White Lotus, in uno specifico arco di tempo. The White Lotus 3, come le stagioni precedenti, ci mostra la settimana che trascorre dall’arrivo alla partenza degli ospiti.
Perché The White Lotus funziona
Il racconto corale è sempre complesso, ma Mike White sa gestirlo in maniera magistrale. Proprio perché fa uso della slice of life. Il vero patto tra autore e pubblico non è quello di scoprire chi sia l’assassino e chi sia la vittima, ma accettare che vivremo una settimana della vita di queste persone. Non importa se siano implicate o meno nell’omicidio. Fin dalla prima stagione, il patto è firmato. L’autore ci promette un finale succoso, tragico, spesso caotico, emozionante o tragicomico, e in cambio vuole la nostra attenzione anche su tutti gli archi narrativi che non riguardano l’omicidio. Ci chiede di pazientare. Sì, scopriremo chi è morto alla fine, ma nel frattempo accettiamo di fare un viaggio.
Il viaggio si svolge non tanto nelle location lussuose del resort, ma all’interno dell’animo umano. Cosa ci muove, come ci lasciamo corrompere, a chi siamo disposti a credere, quanto di noi siamo pronti a perdere? Questo è il vero obiettivo della serie. L’assassinio è un pretesto, il gioco è scoprire quanto ci sia di noi in questi personaggi che appaiono tanto lontani dalla nostra normalità. Sono (quasi tutti) paurosamente ricchi, tutti superficiali o almeno pronti a diventarlo per il giusto prezzo. Credono di vivere delle vite perfette, e all’inizio lo crediamo anche noi. Poi li conosciamo meglio e scopriamo che non vorremmo mai fare a cambio.
ATTENZIONE SPOILER SU THE WHITE LOTUS 3 FINALE
La terza stagione, che sembrava partita con il freno a mano, non ha deluso le mie aspettative. So bene di non parlare a nome di tutto il pubblico, quindi ti prego, scrivimi pure cosa hai apprezzato e cosa no. Il tema di questa stagione ambientata in Thailandia è a prima occhiata la religione. Più andiamo a fondo però, più partecipiamo agli scontri tra Buddhismo e Cattolicesimo nella famiglia Ratliff, più ci addentriamo nel monastero, più ascoltiamo le credenze astrologiche di Chelsea, più conosciamo la profonda fede di Gaitok e quella superficiale di Kate, più scopriamo che si parla di spiritualità e integrità più che di adesione a una fede o a un’altra.
I personaggi di The White Lotus 3, soprattutto gli uomini di questa stagione, sono in profonda crisi spirituale. Inaugurata dal pazzissimo monologo di Frank nell’episodio 5 e approfondita dalle tendenze omoerotiche dei fratelli Ratliff, la crisi dell’identità maschile è la vera protagonista della stagione. Ne parliamo da anni. Dal maschilismo interiorizzato non si salva nessuno, soprattutto non si salvano i maschi. Neanche quelli più apparentemente decostruiti come appunto Frank, Gaitok, lo stesso Pornchai. In un mondo in cui i ruoli di genere cambiano velocemente, mentre le donne e le persone queer studiano da decenni una nuova civiltà per necessità e per ribellione, gli uomini etero non sanno più dove posizionarsi. E così vanno in crisi.
La crisi dei personaggi maschili in The White Lotus
Parliamo di ognuno di loro, di come affronta la crisi e di come rappresenta una parte del maschilismo che non siamo in grado di superare.
Rick Hatchett. Da sempre turbato da un’infanzia traumatica, non ha mai conosciuto il padre e ha scoperto dalla madre, sul letto di morte di lei, del suo brutale assassinio. Non trova pace e, a circa 50 anni, con una fidanzata bellissima che lo ama davvero (in netto contrasto con la coppia Chloe – Greg/Gary), non è mai andato in terapia. Sappiamo bene come terminerà i suoi giorni. Dopo aver apparentemente accettato di lasciarsi alle spalle il trauma familiare, finisce per perdere la testa e far uccidere proprio la fidanzata Chelsea. Amor fati è il titolo del finale di The White Lotus 3. Ma non è il destino ad aver distrutto la potenziale felicità di Rick e Chelsea. Solo le azioni di lui, la sua netta opposizione alla terapia e a un percorso di guarigione dal trauma hanno causato la tragedia.
Timothy Ratliff. L’uomo di successo, ha frequentato un’università prestigiosa e sente sulle spalle il peso di provvedere a tutta la famiglia. Il provider, classico ruolo patriarcale in cui uomini di tutto il mondo sono rimasti ingabbiati senza sapere come sfuggirne. O forse senza volerne sfuggire, chissà. Timothy ha combinato un casino e lo sa bene. Alla prima telefonata ricevuta, ricorda e riconosce il reato che è tornato a tormentarlo. Non si tratta di un errore di ingenuità o di gioventù. L’ha fatto sperando (come chissà quanti ricchi bianchi di buona famiglia) di non essere mai scoperto. E quando si vede con le spalle al muro, non trova soluzione più sana che uccidere tutta la sua famiglia davanti al figlio minore, lasciandolo solo e senza protezione in un Paese straniero. Capisci? Crede che questa sia una soluzione meno traumatica che ammettere il proprio misfatto e pagarne le conseguenze.
Saxon Ratliff. L’apparente villain della stagione, il ragazzo ricco, viziato e sciupafemmine, rivela nella penultima puntata la sua vera natura. Non ha nulla. Non un interesse, non un hobby, non una persona con cui confidarsi. Lo dice apertamente al padre: senza lavoro, senza successo, io sono niente. Ha la fortuna di incontrare sul suo cammino Chelsea e l’intelligenza di riconoscere un bisogno di cambiamento spirituale e di vita profondo. Ma non bastano due-tre libri di filosofia, Saxon. Ti aspettano tantissimi anni di terapia, una volta arrivato sulla terraferma.
Lochlan Ratliff. Il figlio minore della ricca famiglia Ratliff a un certo punto (lo ammetto, anche per associazione con il suo nomignolo Lochy) mi sembrava il vero cattivo. Invece è solo un ragazzino sperso, che non sa chi sia senza la sua famiglia. Si lega in modo morboso e innaturale, a turno, a suo fratello e a sua sorella. “Sono un people pleaser in una famiglia di narcisisti” rivela al fratello maggiore nell’ultima puntata. Anche per lui non basta sputare buzzword da terapia imparate su TikTok. Servirà un percorso più profondo, e chissà se lo farà.
Gaitok. L’uomo che ci era sembrato il più sano tra tutti, e che alla fine crolla. Un vero credente nella fede buddhista, convinto seguace della dottrina della non violenza, vuole fare una vita tranquilla. Un lavoro onesto, l’amore della ragazza che gli piace, una cena thai e un bastoncino d’incenso da accendere a casa. Ma si lascia corrompere proprio dalla donna che ama. In un mondo in cui, dall’alba dei tempi, agli uomini viene richiesta la forza fisica e la violenza per essere ammirati, Mook non sa vedere il suo animo gentile. Lo vuole diverso, ambizioso e sì, se necessario violento. Avevo capito che non sarebbe morto, ma che quella pistola sarebbe stata comunque la sua fine. La fine della sua integrità morale e spirituale.
Come affrontare la crisi della fragilità maschile contemporanea
The White Lotus 3, dicevamo, ci spiazza perché ci mostra personaggi realistici. Nessuno di loro è un eroe, nessuno di loro è incorruttibile. Agiscono, come sempre più spesso avviene nelle opere di narrativa contemporanea, come persone reali. Davanti alla crisi spirituale, morale e degli stereotipi in cui si sentono ingabbiati, crollano. Come capita a moltissimi uomini, anche a quelli che vogliono smontare gli stereotipi e non ci riescono. Non sanno da dove partire.
Non posso indicarti la strada, ma ti suggerisco due libri sulla fragilità maschile e sui danni che il patriarcato ha fatto anche agli uomini:
- Ci scalderemo al fuoco delle vostre code di paglia, di Lorenzo Gasparrini.
- For the love of men, di Liz Plank.
Poi dimmi se li hai letti!
