Non ci siamo accorti che Pose ha cambiato la storia della tv? Com’è possibile?
È stata una settimana impegnativa, questa, per il mondo dello spettacolo. Tra i (melo)drammi di casa nostra con Sanremo e la sua sempre ricca dose di polemiche, i BAFTA Awards a Londra e la Fashion Week di New York, c’era tanta carne al fuoco. Forse per questo in Italia non ci siamo resi conto dell’arrivo di una serie tv che ha cambiato per sempre la televisione internazionale: Pose.
Pose ha cambiato la storia: di che si tratta?
L’ultima fatica di Ryan Murphy (l’uomo che, tra gli altri, ci ha regalato Glee, American Horror Story e American Crime Story, ma anche Mangia, Prega, Ama) è una serie tv da vedere per tanti motivi. La trama di Pose ruota attorno al fenomeno delle ballroom, le sale da ballo in cui gli emarginati della New York di fine anni ’80 si sfidavano a colpi di abiti stravaganti, mosse da ballo in stile vogue (molto prima che Madonna rendesse popolare il ballo) e commenti al vetriolo. A partecipare alle gare le cosiddette House (case), gruppi di individui non legati da parentela che si scelgono di vivere insieme per proteggersi dagli attacchi della società. Sì, perché a vivere la ball culture sono principalmente omosessuali e transessuali, soprattutto quelli di origine latina o afroamericana, gente che vive ai margini della società e che all’interno delle ballroom e delle case può esprimersi liberamente.
Durante il giorno fanno lavori umili oppure si danno alla vita da strada, si prostituiscono, spacciano, ballano ai peep show. La notte, però, indossano abiti sfavillanti e si danno ai balli. Cacciati dalle loro famiglie, maltrattati dalla società nella New York dell’ascesa di Trump, assediati dallo spettro dell’HIV, nelle House trovano una famiglia vera e propria, capeggiata da una Madre (Mother), in grado di guidarli, proteggerli e farli sentire reali.
Un sottosuolo di diversi che trovano in una dimensione parallela alla vita vera molta più realtà di quanta ne troveranno mai per le strade, nei posti di lavoro, nei luoghi pubblici. Una storia che Ryan Murphy ha voluto raccontare con i suoi toni eccessivi, artefatti, barocchi, contrapposti al pallido squallore della vita reale, delle buie stanze d’ospedale, degli appartamenti con le crepe sul soffitto in cui una House diventa vera e propria famiglia. Il tema, complesso e affascinante, affrontato in Paris is Burning (documentario del ’90 disponibile su Netflix) è difficile da affrontare ma la serie tv gli dona il giusto equilibrio tra dramma e commedia.
Perché Pose ha cambiato la storia delle serie tv
La regia elegante, i costumi eccessivi e sofisticati, le ambientazioni fedeli alla ball culture con i suoi lustrini e i suoi trofei plasticosi fanno da sfondo a quello che è in realtà un dramma familiare. Le House sono, per alcuni dei protagonisti, le uniche vere famiglie in cui possano sentirsi al sicuro. E se Elektra è l’archetipo della matrigna cattiva, Blanca è una vera Madre, fonte di nutrimento spirituale e ispirazione, baricentro morale della storia. A corollare la loro spassosa rivalità nel mondo delle ballroom sono i figli che non hanno mai avuto: Angel, che si innamora del classico yuppie che vive nei sobborghi e che tradisce la moglie più con la sua idea di trasgressione che con una persona vera e propria; Damon, cacciato di casa a diciassette anni perché omosessuale e dotato di un cuore e di un talento rari; Papi che scopre a proprie spese il valore di una famiglia, seppur non di sangue; Candy e Lulu, le superficiali reginette del ballo che, in fondo, non sono altro che esseri umani anche loro, con tutte le insicurezze che comporta abitare un corpo che non è il proprio. Su tutti svetta Pray Tell, l’intrattenitore che tira le fila di questo mondo di scapestrati e reietti. A fare da contraltare, lo squallido quanto reale stereotipo del maschio bianco eterosessuale: il già citato yuppie Stan, la moglie Patty, il capo Matt e perfino, mai visto ma spesso nominato, Donald Trump.
A rendere Pose una serie tv rivoluzionaria non sono i temi pruriginosi affrontati (che comunque costituiscono buona parte del fascino di questo show), ma il cast con il più alto numero di attrici transgender della storia. E seppure sia terribilmente triste pensare a quanto spesso abbiamo visto personaggi transessuali interpretati da cis-gender, più triste è vedere come Pose abbia riscosso pochissimo successo di pubblico. Adorata dalla critica (è stata inserita perfino nella rosa delle5 migliori serie tv drammatiche dell’anno ai Golden Globes), è stata vista così poco che SKY, normalmente compratore delle serie di Ryan Murphy, ha deciso di non acquistarla per l’Italia. A farlo è stato Netflix, insieme ad altre serie già cult del produttore e regista come l’acclamatissima American Crime Story: L’assassinio di Gianni Versace.
I temi universali di Pose
House, Mother, realness. Casa, madre e un termine difficile da tradurre in italiano e che perfino la lingua inglese usa pochissimo: la sensazione di essere reali, di appartenere al mondo reale, di essere una persona in tutto e per tutto. Queste sono tre delle parole ricorrenti in Pose, insieme a un numero indefinito di insulti e improperi e commenti velenosi. Perché appunto, dietro a lustrini e paillettes, abiti scenografici e luci stroboscopiche che dominano l’ambiente surreale dei ball, questa serie tv è molto molto reale.
Il tema della famiglia, quella di sangue e quella che si sceglie, è centrale in ogni sottotrama. Tutti i personaggi di Pose sono stati abbandonati da chi li ha messi al mondo, e hanno saputo (oppure no) costruirsi una nuova famiglia nella comunità LGBT. Altro tema fondante è quello della genitorialità, la responsabilità nei confronti delle anime perse che popolano la ballroom community. In positivo e in negativo, le Madri delle Case che si sfidano a colpi di pose e passi di danza modellano la vita dei loro figli “adottivi”, ma non solo: anche l’insegnante di danza di Damon è una figura materna, così come Pray Tell interpreta alternativamente il padre di tutta la comunità ed è lui stesso un’anima persa da salvare.
Infine, la realness. La sensazione di essere sé stessi, reali, tangibili, dotati di un valore intrinseco anche quando la società relega ai margini. Sullo sfondo, la tragedia dell’HIV che miete vittime ogni giorno nella comunità LGBT, vista dalla società come “una sorta di metodo Darwiniano per la selezione naturale“. La serie tv riesce a mantenere un equilibrio delicato tra dramma e commedia, cadendo perfino in piccole trappole sentimentali che comunque non ne sminuiscono la credibilità.
Chi ha guardato Pose?
Netflix non rende facilmente noti i propri numeri, ma basta fare un giro sui social (o una veloce ricerca su Google) per scoprire che in pochissimi hanno guardato questa serie tv in Italia e addirittura pochissime testate di settore ne hanno scritto. La situazione, appunto, non è molto diversa dagli Usa, dove a fronte del successo di critica Pose non ha ottenuto un gran pubblico.
Forse per certi temi non siamo ancora pronti? Non lo so, la settimana scorsa mi sono sembrati tutti perfettamente a proprio agio con il romanticizzare il documentario su un reale serial killer. Mettersi nei panni di un omosessuale afroamericano che vive ai margini della società, che affronta lo spettro di una malattia devastante e che cerca il suo posto nel mondo dovrebbe essere più difficile?
Forse veramente non siamo pronti se, mentre Pose usciva su Netflix, molti di noi discutevano sull’albero genealogico dell’artista che ha vinto Sanremo invece che sul suo valore musicale. Forse il mondo non è pronto, se durante la stagione dei premi (che di un po’ di vera diversità potrebbero far tesoro) nessuna delle attrici transgender è stata nominata nonostante il loro lavoro straordinario. Forse non è pronto neanche Ryan Murphy, né la stessa casa di produzione della serie (FX) se i nomi di Evan Peters, Kate Mara e James Van Der Beek, gli unici tre attori bianchi che interpretano personaggi eterosessuali, compaiono SEMPRE prima di quelli dei protagonisti nei titoli di coda. Abbiamo tutto il tempo per prepararci, però: Pose è stata già rinnovata per una seconda stagione.
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