La legge di Lidia Poët è l’ultima serie tv italiana targata Netflix, un prodotto che è uno dei primi a far parlare della nostra serialità oltre i confini del Bel Paese. Si contano sulla punta delle dita (L’Amica Geniale, Gomorra, The Young Pope e pochi altri) i prodotti audiovisivi che in poco tempo hanno raggiunto gli Stati Uniti. Da oggi possiamo contare anche la miniserie Netflix. La piattaforma ha diffuso i dati ufficiali della scorsa settimana e Lidia Poët è stabilmente nella top 10 delle serie tv più viste in USA, Germania, Austria e altri Paesi. Ma serve soprattutto all’Italia, alle italiane e agli italiani. Ecco perché.
La legge di Lidia Poët è una storia vera?
Solita domanda che ci facciamo sempre, tutti, ogni volta che vediamo un prodotto di intrattenimento dall’ambientazione storica. E solita risposta: in parte sì. Tratta della prima donna italiana a battersi per entrare nell’Ordine degli Avvocati dopo la sua laurea in legge. Una battaglia che fa da sfondo alla storia della serie tv, ma non ne è protagonista come avremmo pensato.
La legge di Lidia Poët sfrutta una formula già utilizzata sia da Netflix (ricordate l’orribile Freud?) che da altri prodotti audiovisivi. Vista la passione del pubblico per i gialli, prende un personaggio realmente esistito, calato in un contesto storico preciso, e lo rende protagonista di gialli leggeri e perlopiù inventati.
Il grande vantaggio della storia semi-reale
In alcuni casi si tratta di un esperimento fallimentare (ho già parlato di Freud e della sua sovrabbondanza di peni sanguinanti?) ma che stavolta riesce alla perfezione. La storia vera di Lidia, di una lotta continua e apparentemente impossibile contro il patriarcato, si alleggerisce di spunti romantici, battibecchi familiari e delitti facilmente risolvibili.
Sullo sfondo, però, un’Italia che non è troppo lontana da noi. Basti pensare che la battaglia di Lidia si è risolta solo un secolo fa (la sua definitiva ammissione all’ordine degli avvocati è del 1920). Insomma, l’altro ieri. Siamo abbastanza vicini alla realtà da comprenderla, abbastanza lontani da accogliere anche un pubblico che normalmente non guarderebbe una storia femminista.
L’Italia di fine Ottocento e quella di oggi
Se colpisce la società smaccatamente patriarcale di un secolo fa, ancora più sottili ma potenti sono i riferimenti al sessismo benevolo di cui la serie è cosparsa. Vero che l’Ordine degli Avvocati non avrebbe mai accettato Lidia tra le sue fila a fine Ottocento, ma altrettanto vero che certe frasi si potrebbero ripetere, parimenti, nel 2023. E si ripetono. Quante volte, durante quella manciata di puntate, abbiamo pensato che no, noi non andremmo in giro di notte da sole neanche nella modernissima Torino di oggi? Quanto abbiamo sofferto nello scoprire che la studentessa brillante in cui Lidia tanto si immedesimava fosse veramente colpevole?
Perché anche oggi, se non possiamo fidarci l’una dell’altra, di chi? Non certo della Magistratura e della Legge italiana, che troppo spesso ci dicono ancora di stare zitte, di adattarci, di non denunciare e se denunciamo prepararci alla pubblica gogna. Non della stampa, che stabilisce colpevoli e vittime a priori e con pochi elementi su cui basare le proprie arringhe. Insomma, la battaglia di Lidia è ancora la nostra.
Avvocata: Lidia Poët maestra del linguaggio moderno
Quanti e quante di voi hanno storto il naso sentendo Lidia Poët definirsi avvocata? Una parola che non esiste, inventata dalle femministe arrabbiate del XXI secolo che poco hanno di cui lamentarsi, e quindi si concentrano sui femminili professionali. Peccato, davvero, che a usare la parola avvocata non è solo la Lidia della serie tv, ma anche quella reale. In un’intervista del 1883, per la precisione.
Pensate che smacco, per quelli che ”non è importante il genere, ma la professionalità”. Eppure scegliendo di definire una donna avvocato ripetono intrinsecamente l’adagio per cui un uomo, o anche solo un nome maschile, è più professionale. Che una donna, e il nome femminile che la rappresenta, siano necessariamente una parodia, una diminuzione, una riduzione d’avvocato che per sbaglio è nato in un corpo femminile. Pensate che dolore per me e per tutti i linguisti e le linguiste d’Italia, che ben conoscono la parola avvocata e la sua storia, sentire che anche le mie coetanee preferiscono essere definite al maschile. Speriamo che abbiano visto La Legge di Lidia Poët con la giusta apertura mentale. Speriamo l’abbiano vista anche i loro colleghi, i loro clienti, i Magistrati, magari anche le Ministre e le Presidenti del Consiglio che preferiscono una denominazione maschile.