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La retorica della donna guerriera, che non si abbatte davanti a nulla, ha francamente stufato. Soprattutto se la donna è una malata cronica.

 

Sono settimane che mi chiedo se pubblicare o meno questo post, e oggi si è accesa la miccia che mi ha fatto decidere di sì. Perché oggi ho letto tante, ma tante di quelle cose sulla morte di Nadia Toffa. Una guerriera, l’hanno definita, l’avete definita tutti. Ma combattere una malattia non fa di te un guerriero e dovremmo veramente smetterla di parlare in questi termini. Provo a spiegarvi il perché, pur rimanendo rispettosa di tutti i malati cronici (e di tutti i malati in generale). E della loro personalissima libertà di combattere la malattia come gli pare. 

La retorica del guerriero (e soprattutto della donna guerriera)

Capita che le donne siano da sempre viste come le stoiche sopportatrici di tutti i mali del mondo. Il dolore è insito in noi, giusto? Abbiamo il ciclo, il parto e via discorrendo. Siamo biologicamente programmate per soffrire. E questo è vero, fino a un certo punto. 

Altrettanto vero è, però, che noi donne siamo abituate a non lamentarci. Silenziate, sempre, da tempo immemore. Le donne lavorano anche con 40 di febbre e gli uomini chiedono l’estrema unzione quando il termometro raggiunge 37,1? Eh sono fatti così, cosa vuoi farci, so’ ragaaaazzi. Eh no. Sono abituati ad esprimere il dolore fisico che provano, laddove le donne sono silenziate, da sempre. Occhi bassi e bocca chiusa, sorridi e manda avanti la famiglia. Sempre. Anche se hai 40 di febbre. Pure se hai una malattia cronica. Perfino se hai il cancro. Ed è così che, supportata da secoli di silenzio e da qualche decennio di iper-produttività, è nata la retorica della donna guerriera

Combattere una malattia: sorridi e vai avanti

Ed è così che, per uomini e donne è nata questa aberrante retorica del combatti, non ti arrendere, non mollare. Ma che significa? Che significa combattere una malattia, per una persona che soffre di patologie croniche o terminali? Che volete dire, quando dite una frase del genere? Io mica lo capisco. 

Capisco che l’intento sia quello di incoraggiare, ma non capisco a fare cosa. Non ti arrendere lo dici a uno che è stato bocciato 3 volte allo stesso esame. Non ti arrendere, studia di più, studia meglio. Combatti lo dici a un atleta che deve affrontare un avversario temibile. Combatti, dimostra il tuo valore, ce la puoi fare. Non mollare lo dici a uno che deve trasportare la spesa su per le scale e si stanca all’ultimo scalino. Non mollare, manca l’ultimo scalino, se molli adesso cascano le buste e si rompono le uova. 

Ma a me, che soffro di una malattia cronica o terminale, perché dici di non mollare? Di combattere? Di non arrendermi? Cosa, esattamente, dovrei combattere? Il mio corpo, la mia malattia, il fato che mi ha mollato ‘sto fardello sul groppone? Ma che pensi, che possa decidere io? Che non stia facendo abbastanza? Che mi stia arrendendo? 

 

Cosa dire e cosa non dire a un malato

Ti ripeto, amico, parente, conoscente di una persona malata: lo so perché dici di combattere la malattia. Lo so. Cerchi di essere d’aiuto. Non sai che stai contribuendo a creare la retorica della donna guerriera, che non può permettersi di cadere o di perdere o di stendersi sul campo di battaglia e riposare, almeno un pochino. Non lo sai. Te lo spiego io. 

Quando mi dici che sono una guerriera, che devo combattere, che ho la forza per fare qualsiasi cosa, non mi stai aiutando. Mi spiace. Mi stai facendo sentire in colpa. Lo so che non lo fai con cattiveria, te lo ripeto. Ma lo fai. Ti fa stare meglio, forse. Non ti arrendere, non mollare, combatti la tua malattia. Lo dici ad alta voce e ti sembra di essere una brava persona, di aver fatto il tuo.

La retorica della donna guerriera: vietato lamentarsi

Non sai che dentro di me compare a caratteri cubitali la domanda “è colpa mia?”. Nell’era della produttività inarrestabile e del divertimento a tutti i costi, mi stai dicendo che non ho il diritto di pensare “Cavolo, vorrei tanto essere pienamente in salute invece che malata”. Nè di esserne triste o semplicemente di starmene sul divano, per oggi, e riposare. Vietato lamentarsi, mi dici.

Forse non te ne rendi conto, ma è questo che stai insinuando, quando mi dici combatti. Stai insinuando che non stia combattendo abbastanza, che ci sia qualcosa che potrei fare e non sto facendo. Che sia colpa mia, di fatto. Come quando Nadia Toffa, la guerriera, ha detto che il cancro è un dono. Stava facendo una cosa normalissima, umana, stava esercitando il sacrosanto diritto di un malato ad affrontare la propria malattia come gli pare. Anche come un dono, se questo lo fa stare meglio. Siete stati voi a sbagliare, tutti voi. Che con la vostra retorica della donna guerriera, che torna al lavoro dopo una malattia devastante, con i vostri incoraggiamenti al grido di Combatti! avete dato a tutti gli altri malati dei codardi. Combattere una malattia non fa di te un soldato né un robot, programmato per sopportare e tollerare con un sorriso e lavorare con dolori lancinanti. Sei e rimani una persona qualsiasi, con le sue debolezze, che certi giorni è coraggiosa e positiva e altri si butta giù, che certi giorni riesce a lavorare e ridere e uscire con gli amici e altri giorni vuole solo rimanere al buio della sua stanza e piangere. E va bene. Questa è la tua malattia, è il tuo corpo, non è una guerra e tu non sei una guerriera: sei una persona malata e nessuno ha il diritto di pretendere che tu faccia finta di non esserlo. 

 

Con un sentito saluto a Nadia, che guerriera forse lo è stata, a modo suo, ha fatto quello che voleva e che sentiva di poter fare. E un abbraccio a tutti i malati che guerrieri non sono, e va benissimo così.