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Si può andare in overdose di idee? Dev’essere successo
questo a Raf Simons, il direttore artistico di Dior che nelle collezioni
passate ci ha fatto sognare, e stavolta … ci ha lasciati confusi e disorientati. Il
suo progetto, ha spiegato a Suzy Menkes e agli altri giornalisti nel backstage,
era di rappresentare in un solo show tre epoche d’oro: «il romanticismo degli
anni ’50, il coraggio dei ’60, la libertà dei ‘70». E in effetti la collezione
presenta elementi provenienti dalla storia stilistica di queste tre decadi. Si
passa dai cappotti in plastica trasparente meravigliosamente dipinti, agli
altissimi stivali in vinile dai colori accesi, dalle silhouette a ruota con
stampe fiorate alle gonne-portafoglio, dalle jumpsuit multicolor ai total look
rigati e ricoperti di paillette. C’è anche spazio per l’ispirazione futurista
che ha accompagnato la sfilata Esprit di Tokyo (vi ricordate?). Infine, gli abiti sognanti, i
volumi ampi che monsieur Christian ci ha insegnato ad amare, a righe
coloratissime nelle nuance più accese o nelle sfumature pastello. Il tutto
immerso in un’atmosfera strepitosa e realizzato – su questo non c’erano dubbi –
con la cura e l’attenzione che una sfilata d’alta moda merita. Se presentati
separatamente, tutti questi elementi avrebbero entusiasmato critici,
giornalisti, blogger e anche noi che desideriamo solo poter catturare un sogno
e farlo nostro. Ma così, la collezione risulta disomogenea, disordinata,
confusionaria. Un peccato, anche un piccolo dolore.

Appena finisce una qualunque sfilata di Chanel, i social
network, il web, in alcuni casi anche le riviste e sicuramente moltissime menti
dedite alla moda si riempiono di una sola domanda: “Chissà se Coco Chanel
avrebbe apprezzato”. Forse perché Coco (mi permetta di chiamarla per nome,
Mademoiselle) è nell’immaginario collettivo un’icona più che un’artista, un
ideale più che una persona. Riviviamo la sua personalità tramite i tailleur in
tweed, le giacche con quattro tasche, il tubino nero e la 2.55. Se Coco Chanel
fosse ancora tra noi, la collezione Haute Couture SS15 sarebbe stata ben
diversa, come pure tutte le altre. Più bella? Più brutta? Più colorata, meno
colorata? Più classica, più moderna? Non lo so, ma sicuramente diversa. Perché
nonostante continuiamo a pensare a lei cristallizzata in quei capi che
conosciamo e amiamo, se avesse vissuto più a lungo il suo stile sarebbe stato
sicuramente influenzato dai tempi, dalla società, dalla storia, dalle
esperienze che avrebbe vissuto. Oggi c’è Karl, e credo che il suo sia un lavoro
strepitoso. Riesce, come un funambolo, a mantenere il delicato equilibrio tra
l’identità della maison e il suo personale estro creativo. Il risultato sono
dei tailleurini in tweed adorabili, dalle linee pulite come piacevano a Coco,
ma dai colori vivi e allegri, movimentati in alcuni casi da lunghe frange. Completi
bianchi profilati in nero, che portava lei stessa, ma con tagli diversi.
Cappellini a tesa larga e beanie contornanti di veletta, per un’aria retrò ma
figlia dei nostri tempi. Come non amare il tripudio di fiori che sbocciano
sulle maniche, sugli orli dei soprabiti, sui crop top e sulle gonne longuette?
Chiude la sfilata la regina del giardino, sposa della natura e del buongusto,
vestita di fiori e luccicante di candore. Se sarebbe piaciuta a Coco non so
proprio dirlo, ma in quel giardino lussureggiante e prezioso per molte di noi è
sbocciato l’amore.